Aprire una partitura o un manoscritto di un grande autore, antico o moderno che sia, richiede competenza, coraggio e presunzione. Si espone cioè il sentire di un'altra persona, mettendo in gioco sé stessi, secondo la propria sensibilità. E poiché interpretare è diverso da essere, l‘anima e l’essenza che hanno ispirato il compositore andranno perse, o non espresse, comunque in parte.
Le registrazioni in studio ci hanno abituato, ahinoi, a prodotti musicali pregevoli, ma spesso innaturali e asettici, ben lontani da quelli delle avanguardie fonografiche live. Nelle “rudimentali” incisioni di primo Novecento, sono presenti così tanti colpi di tosse, chiacchiericci e rumori di passi, che pare di essere davvero in teatro e quasi ci coglie la tentazione di chiedere al vicino di palchetto di fare silenzio! Tecnologie lontane da noi anni luce: nell’era del microprocessore, del digitale, delle proiezioni laser, dopo che interpreti del calibro di Maria Callas, Carlos Kleiber, Luchino Visconti hanno sviscerato, disossato e poi ricomposto personaggi, strutture armoniche ed emozioni, cosa può aggiungere oggi un interprete che non sia già stato detto? Sarebbe però come credere inimmaginabile l’avvento di un Caravaggio, dopo la grandezza di un Piero della Francesca o di un Giovanni Bellini. L’Arte, infatti, e dunque la Musica, non nasce e muore, ma vive innumerevoli cicli vitali: quelli di chi crea ed interpreta e quelli di chi fruisce. Così non esiste una sola “pietà”, un unico “requiem”, non un “barbiere di Siviglia” o una “Ifigenia”. Ogni nuova produzione, sinfonica o operistica che sia, è la scoperta o il remake di un grande successo. Gli accenti veristi degli anni cinquanta hanno ceduto il passo a un po’ di formalismo in più ma le voci restano, fermate dai moderni supporti o dal vinile con l’immancabile fascino che produce il fruscio della puntina sul disco in rotazione. Così prepotente, il godimento ci sorprende nel nostro intimo desiderio di “partecipare” la Musica. Suoni e accenti capaci di entrarci nella carne e nell’anima, pungendoci nella nostra fragilità, toccandoci sul vivo là dove riconosciamo noi stessi, dove scopriamo che il dramma, le debolezze, le pulsioni e gli affetti che il compositore celebra sono gli stessi che viviamo ogni giorno. Questa è forse la finalità dell’arte: dirci chi siamo, paralizzarci in un’introspezione spirituale o scuoterci senza pietà. Farci provare tutto e il suo contrario, fuorché l’indifferenza, l’inerzia. Non è un caso che gli inni nazionali, le marce, i tamburini di guerra abbiano avuto nella storia la funzione di spronare e risvegliare la dignità, le coscienze, gli orgogli, le passioni. Viviamo di sensi, di relazioni, di condivisioni e di confronti. Dunque non per isolate ed insondabili congiunture, la musica “si fa cura” nella terapia dei risvegli, nei reparti ospedalieri di terapia intensiva. Perché ogni volta che ascoltiamo una “Jupiter”, un oratorio, un intermezzo, entriamo in connessione con il nostro io più profondo, ritroviamo nelle pulsazioni delle arcate di un’orchestra il giusto ritmo vitale, che scioglie blocchi, tensioni e nevrosi. Siamo dunque interpreti come musicisti e tuttavia lo siamo come ascoltatori: poiché il nostro spirito analizza e comprende. Possiamo allora scegliere di essere più o meno fedeli all’idea originale del compositore e comunque la forza di un brano che cavalca i secoli non riuscirà a venir meno. L’autore, suo malgrado, quando non siano inaccettabili, sorriderà delle intemperanze dei singoli e dei malcostumi di momentanei trend. Un modus operandi che ebbe come antesignano il grande Rossini, il quale, ad una cantante che aveva appena eseguito un’aria da lui composta, arricchendola di propria iniziativa di gorgheggi e abbellimenti, chiese ironico: “Molto bella, chi ne è l’autore?”.