Oggi è estremamente raro trovare nello scenario artistico e culturale italiano, contraddistinto e segnato dalla crisi economica internazionale, un'opera che con tanta lucidità e immediatezza affronti il tema della perdita del posto di lavoro in modo così marcatamente anticonformista come avviene con "L'incognita": il nuovo film del giovane regista italiano Enrico Muzzi. Un film che nulla condivide con tutti quei luoghi comuni che dall'inizio della crisi, nel 2007, hanno scandito in modo tragicomico la vita economica e sociale della nostra nazione. "L'incognita", dunque, è un film anticonformista perché interamente costruito sulla lingua della Pentecoste, la lingua altra, la lingua diplomatica per eccellenza. Una lingua che procede dall'apertura e dal suo modo: l'ironia. Una lingua che Enrico Muzzi usa in modo narrativo e analitico senza evitare affatto la contraddizione, l'equivoco, la svista, il malinteso ma, anzi, avvalendosene con l'intento di qualificare una storia segnata dalla disperazione e dall'abbandono. Sicché la lingua filmica di Enrico Muzzi, mai frammentaria, mai naturale, mai conformista, lingua scientifica e poetica per eccellenza, punta direttamente all'aforisma e alla cifra senza mai diventare lingua descrittiva, lingua della significazione, lingua della rappresentazione.
Senza più stupore e senza più calma il film "L'incognita" ci narra la storia di Silvano, un uomo di mezza età che perde il lavoro e si trova improvvisamente tagliato "fuori dai giochi". Con una famiglia da mantenere e dopo averle provate tutte, Silvano, cade nello sconforto. In un istante di disperazione impugna una rivoltella e tenta di suicidarsi per far valere la polizza sulla vita che aveva stipulato qualche anno prima. Una polizza che avrebbe assicurato alla sua famiglia una vita decorosa. Qualcosa di assolutamente sorprendente riuscirà però a far cambiare i suoi propositi.
Ebbene, in questo contesto caratterizzato dalla disperazione, la lingua altra, la lingua diplomatica di Enrico Muzzi ci indica come il concetto di crisi vada affrontato e letto in modo differente. Egli, infatti, in questo suo lavoro che ha la qualità dell'aforisma, ci narra come il concetto di crisi (krisis, giudizio), sia un momento importante, sia, anzi, il punto di svolta della vita, della famiglia e dell'impresa. Infatti per Silvano è indispensabile, anche in una condizione di estrema, di assoluta disperazione instaurare continui dispositivi di parola che rilanciano verso lavori altri e differenti dal precedente. Dispositivi che risentono dell'autorità e della responsabilità di Silvano verso la sua famiglia. Dispositivi che messi alla prova di realtà paiono non tenere, paiono dissolverei come neve al sole, ma che comunque permettono al protagonista del film di andare avanti fino all'ultimo respiro, fino alla svolta che arriva inaspettata e sorprendente lungo il filo di una tensione impossibile da sostenere a lungo.
"L'incognita" in definitiva ci dice che quando c'è la crisi è proprio lì che bisogna rilanciare. Nel ridimensionamento della speranza non si vive, c'è solo la gnosi naturale, l'accettazione naturale del limite, della morte, del difetto.
La crisi, dunque. la crisi come giudizio temporale. Giudizio temporale perché riguarda il fare. Un fare che per Silvano appartiene alla sua instancabile ricerca di un nuovo lavoro. La questione che enuncia Silvano è dunque questa: nel
mentre della disperazione le cose si fanno! Infatti nell'attimo estremo in cui Silvano sta per togliersi la vita ecco l'intervento dell'Altro, di qualcosa d'altro che giunge a giudicare i suoi sforzi e la sua responsabilità verso se stesso e la sua famiglia.
In questo straordinario aforisma filmico intorno alla vita, Enrico Muzzi ci dice come la disperazione non è da intendere come una negazione della speranza, ma è la speranza stessa senza soggetto degli alti e bassi; è la speranza come ironia della sorte, come interrogazione, come questione aperta. E non ha tutti i torti il regista de "L'incognita" a metterci sull'avviso che con la speranza facile di uscire dalla crisi, per esempio, come prima cosa ci si rompe il naso perché si vede la luce dappertutto e invece si va a sbattere, perché non era luce ma buio.