Parliamo della sua carriera nel mondo della musica. È stato manager di Vasco Rossi e Patty Pravo, due grandi nomi del panorama italiano. Cosa le è rimasto di quegli anni?
Ho iniziato con gli italiani nel 1978, proprio con Patty Pravo, che portò Pensiero stupendo al Festival di Sanremo. Prima seguivo gli stranieri, organizzavo le tournée degli artisti esteri in Italia. In quel periodo avevo anche una radio, si chiamava Radio Musica, che poi è diventata Radio DJ quando l’ho venduta a Cecchetto. Il periodo di Patty Pravo è stata un’esperienza molto importante, perché era un’artista difficile e l’ho presa in un momento critico. Però siamo riusciti a farle fare quasi 100 concerti, mi facevo ascoltare da lei e abbiamo fatto un buon lavoro insieme.

Il Rolling Stone di Sanremo
Ho sempre avuto dei locali, prima e dopo: ho aperto il Rolling Stone a Milano nell’81 e nel frattempo ho ripreso a fare concerti. Nell’82 ho fatto un grande festival a Redecesio, che è un laghetto fuori Milano dove si sono esibiti i Police, i Talking Heads, Frank Zappa, tutti nel giro di tre giorni. E da lì ho ripreso a seguire gli artisti stranieri.
Nel frattempo avevo conosciuto Vasco e abbiamo iniziato a lavorare insieme. A differenza di Nicoletta (Patty Pravo n.d.r) con Vasco è stato più facile. Vasco è un artista che suona e canta e non fa problemi, mai fatto capricci o richieste strane. Almeno con me: 17 anni insieme, 17 anni perfetti.
Da profondo conoscitore della musica cosa ne pensa dei talent show e degli artisti, spesso meteore, che emergono da questi programmi televisivi?
Ho seguito, come manager Antonello Venditti, Pino Daniele per molti anni, in un certo periodo Claudio Baglioni. Questi artisti stanno sempre in piedi e vanno avanti perché hanno “gli attributi”. Gli altri sono di passaggio. Non so chi davvero si sia affermato. Durano poco, troppo poco, sono delle mode. Poi ci sono dei medi artisti, che riescono ad andare avanti, ma sono comunque emersi anni fa.
Quindi a suo parere oggi per chi vuole entrare nel mercato della musica è più difficile?
È più facile fare successo immediato, perché ci sono questi programmi televisivi che aiutano molto la notorietà. Ma è più difficile durare nel tempo.

L'Alcatraz di Milano
Parliamo dei locali che ha fondato. È stato un vero pioniere del rock in Italia. Due esempi: il Rolling Stone e l’Alcatraz, sono luoghi che hanno segnato la vita musicale di Milano.
Ho iniziato nel 1969 a Riccione, ho fondato il primo locale rock in Italia, dove suonavano i New Dada e vari artisti stranieri. Poi mi sono spostato nella periferia di Milano e ho creato un locale di riferimento per i musicisti rock e dove è nata la PFM: si chiamava Carta Vetrata. Un locale piccolo, ma facevamo musica dal vivo davvero e per l’epoca era raro. Vi provavano De Andrè, Patty Pravo, tutti i più grandi artisti.
Poi nell’81 avevano messo in vendita lo Studio 54 a Milano, in Corso XXII Marzo e la mia aspirazione è stata sempre farne un locale rock. Così l’ho preso, aiutato da un amico e l’ho chiamato Rolling Stone. Ho avuto qualche problema, ai tempi, con i Rolling Stone, mi hanno fatto subito causa. Ma non avevano registrato il marchio in Italia in quel settore e quindi hanno perso la causa. Da allora il nome è mio e lo mantengo, come per il locale che ho fondato qui a Sanremo a Portosole.
Il Rolling Stone è stato uno schiaffo ai locali tradizionali di Milano, alle discoteche in tutta Italia. È durato 30 anni perché era un locale dove si fa musica dal vivo e musica di un genere particolare che non muore mai, mentre il genere suonato nelle discoteche dura un anno o due, è un moda passeggera. L’ho creato, poi l’ho venduto, poi l’ho ricomprato, poi di nuovo venduto.

Logo dell'American Road di Erba
Nel ’98 ho fondato l’Alcatraz, sempre con la stessa idea. Molto più grande, dove gli artisti internazionali che arrivavano trovavano la possibilità di entrare direttamente con i camion delle attrezzature, caricare e scaricare, senza disturbare la gente che abitava vicino. Problema che invece avevamo al Rolling Stone. E ancora oggi fa esibire i più grandi artisti.
Tutt’ora possiedo l’American Road a Erba, anche quello votato alla musica live.
Portare artisti stranieri del calibro di Bruce Springsteen o David Bowie in Italia era più facile un tempo o oggi c’è una movimentazione?

Bruce Springsteen a San Siro
Un tempo c’eravamo noi, che eravamo tutti cani sciolti: io, Franco Mamone, David Zard. E portavamo gli artisti perché andavamo a Londra, incontravamo le agenzie che rappresentavano i musicisti in Europa, e si trattava. Ci si scornava tra chi offriva di più e chi di meno, poi diventavi amico di un agente e portavi a suonare l’artista che rappresentava. Io ho portato in Italia nel ’73, il periodo più forte, i Deep Purple perché ho parlato con John Coletta, che era il loro manager.
Oggi è molto più difficile per chi inizia a fare questo lavoro, perché adesso ci sono grosse agenzie americane o inglesi, che hanno il potere assoluto. Per esempio la Live Nation: quando prende un artista lo distribuisce in tutto il mondo. Anche in Italia ci sono le agenzie, 4 o 5 le più valide.

Enrico Rovelli - © Valenti
Cosa ne pensa della qualità della musica italiana oggi. C’è ancora sperimentazione, c’è ancora ricerca?
La sperimentazione c’è ma non la vediamo. È meno pop. Quella che fanno attraverso i vari reality o programmi televisivi non è ricerca musicale. La musica italiana è in crisi perché non è aiutata, non c’è niente che si fa per i giovani. Io conosco tanti gruppi di ragazzi che suonano, si ammazzano di lavoro tra prove e trasferte e non riescono a farlo come professionisti. In Svizzera o in Francia, invece, gli artisti vengono aiutati. Io spesso faccio venire a suonare artisti francesi e mi raccontano che riescono a farlo da professionisti perché possono permettersi di suonare tutto il giorno, non devono andare a lavorare in altri settori per mantenersi. Loro hanno dei finanziamenti dal governo. In che modo? Un artista viene a suonare da me e prende 300 euro, presenta la fattura e il governo gliene dà altrettanti. Dopo 48 concerti prende anche uno stipendio mensile. Se fossi un musicista, me ne andrei dall’Italia.
Un modello che sarebbe applicabile anche in Italia?
Ma certo! Sai quanti ragazzi potrebbero vivere di musica? Altrimenti perdiamo artisti di valore che abbandonano la professione perché non riescono a vivere.
Cosa pensa della battaglia portata avanti da molti musicisti per una defiscalizzazione rivolta ai locali che fanno musica live e per una riduzione dei costi relativi alla Siae?
Io mi trovo in bilico, perché da un lato sto dalla parte dei gestori e dall’altra sono anche un manager musicale. L’eliminazione della Siae, secondo me, è una sciocchezza. L’arte va protetta e quindi direi di stare molto attenti. Diminuire gli introiti si può, cancellare no.
Tra tutti gli artisti che ha seguito, quale le ha dato più soddisfazione?
Italiano certamente Vasco Rossi, ma internazionale direi Bruce Springsteen. La più grande soddisfazione l’ho avuta con il primo concerto che feci a San Siro nel 1985. È stato formidabile.