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Fragolino: il clown che fa sorridere il cuore

“Faccio il pagliaccio”. “No dai, non scherzare che lavoro fai?”. “Faccio il pagliaccio”.

di Nadia Macrì - 19 settembre 2018
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Pagliaccio. Prendo il vocabolario e leggo: “Persona che si comporta in modo ridicolo, con assoluta mancanza di serietà, di dignità, di coerenza, e sulla quale non si può fare alcun affidamento: non c’è da fidarsi di lui, è un pagliaccio!”.
Eppure i bimbi ci insegnano che dei pagliacci ci si può fidare, il cinema e la letteratura ci ricordano che uno dei personaggi più spaventosi ha sfruttato la forza di un naso rosso, e quando da bambini abbiamo varcato per la prima volta la soglia della famosa catena di fast food, non sapevamo ancora se ci fossero piaciuti poi gli hamburger, ma sapevamo che avremmo potuto stringere la mano a Ronald McDonald.
Continuo a leggere sul vocabolario: “Attore comico che, vestito in modo buffo, con giacca e pantaloni troppo larghi e scarpe smisurate, truccato in modo vistoso o grottesco, si esibisce nei circhi e nei teatri, recitando scenette ridicole”.

E no, non ci siamo ancora. No, perché nelle nostre giornate sempre di corsa ogni tanto riusciamo a respirare, o meglio a controllare il nostro respiro, metodo antico per imporre il silenzio al flusso disordinato e dinamico dei nostri pensieri. Un respiro… e riusciamo a guardare anche ciò che non esiste. Per farlo basta a volte percorrere di fretta una piazza e ritrovarsi dinanzi ad un artista di strada che con i suoi occhi magnetici ci chiede di fermarci. E ci ritroviamo accanto dei bimbi con la loro irrefrenabile festosità, ci ritroviamo a ridere per delle gags e a comprendere da adulti le capacità tecniche per formare quelle bolle di sapone piene di aria, ma non di arie. Capiamo che il pagliaccio utilizza l'errore per creare momenti di divertimento e empatia, sfida i suoi limiti e accetta il fallimento per poi trionfare. In piazza c’è lo spettacolo “Clown in corso”, ma sarà deluso chi si aspetta solo barzellette e grasse risate, perché Stelio Marano in arte Fragolino, usa la sua valigetta degli attrezzi per raccontare ai bambini della Siria, del sogno della pace, della forza dei cuori, della possibilità di cambiare e non solo migliorare.

E forse nella frenesia di questi tempi dovremmo ritrovare lo stupore e la meraviglia dei bambini, e lasciarci affascinare da queste magiche atmosfere che questi artisti poliedrici riescono a regalare. Dovremmo saper ridere nonostante i tanti musi lunghi delle nostre giornate, e piuttosto che tornare con la mente agli anni belli della nostra vita, convincerci che se vogliamo possiamo sempre far parte di quella fascia di bambini che va da 0 a 99 anni… un po’ come le farfalle che non invecchiano mai. E dovremmo farlo scalzi perché possiamo crescere in altezza e in numero di piede, ma un pagliaccio potrà prestarci sempre le sue scarpe.


Nel furgone che ti accompagna c’è il logo e titolo del tuo spettacolo: Clown in corso, ma sei in corso da quanti anni?
Quasi 18 anni. Seriamente da quasi 18 anni.

Seriamente clown dunque. E come hai iniziato?
Con il volontariato negli ospedali a Cosenza. Lì dove c’è l’esigenza di portare la clown terapia nelle corsie. Poi da lì ho capito che mi piaceva molto quello che facevo e perciò ho lasciato il mio precedente lavoro per dedicarmi totalmente al mestiere del clown. Quindi ora mi occupo di spettacoli, di formazione, insegno la clown terapia… tutti progetti di attività sociale.

Clown terapia che arriva anche dove c’è un estremo dolore, ma c’è un connubio fra sofferenza e gioia?
Sì, perché sono emozioni. La sofferenza, la gioia, la felicità la tristezza fanno parte dell’umanità, però affrontarle con lo spirito e la filosofia da clown vuol dire affrontarle con un altro punto di vista.

Punti di vista che spesso fai diventare storie nei tuoi spettacoli. Storie che racconti ai più piccoli soprattutto, ma sicuramente da loro ricevi anche tante risposte. Ci racconti una?
Una fra le tante che mi ha colpito tantissimo è stata di una bimba terrorizzata dai clown. Quando ha saputo che un clown sarebbe arrivato per un progetto nella sua scuola ha iniziato a piangere per due giorni e quando mi ha visto arrivare in abiti civili era in lacrime. Io però mi sono truccato davanti a loro, con tutto un percorso e piano piano questa bambina ha iniziato a prendere confidenza con il personaggio e alla fine dello spettacolo piangeva, ma perché andavo via e questo mi ha riempito il cuore perché è una risposta che dà il senso di tutto, anche la consapevolezza di essere sulla strada giusta.

E con i bambini non si scherza…
I bambini sono intelligentissimi, assorbono molto e i messaggi che recepiscono rimangono per sempre, sono come dei semi.

Quindi tu sei un seminatore?
Ci provo!

Come reagisce invece il pubblico adulto quando dici di essere un clown?
C’è gente che non crede. “Che lavoro fai?”. “Faccio il pagliaccio”. “No dai, non scherzare che lavoro fai?”. “Faccio il pagliaccio”. “Dai, che lavoro fai?”. “Faccio il pagliaccio, il clown”. E quando dici “clown” vieni considerato, ma se dici pagliaccio, che è il clown, viene vista come una cosa negativa, e invece per me è il mestiere più bello del mondo perché io mi occupo dell’aspetto bello, poetico, tenero, spensierato, leggero delle persone. Io mi occupo di quella parte lì ed è bellissimo.

Sei un po’ il medico del sorriso?
Sì, ma aiuta a stare bene me.

E perché Fragolino come nome d’arte?
Me lo ha dato mio figlio questo nome! Lo ha scelto lui quando era piccolo e non ho avuto il coraggio di cambiarlo, ma adesso mi conoscono tutti come Fragolino.

Come sarà crescere con un papà clown?
Da bambino mi emulava, poi nella fase adolescenziale un po’ si vergognava e adesso che ha 18 anni è fiero perché sente gli applausi e la felicità delle persone che assistono agli spettacoli.

Tu sei cosentino e giri tutta la Calabria, ma dove possiamo vederti ancora?
Al sud. Puglia, Basilicata. Ma voglio restare al sud perché io sono nato e cresciuto all’estero, in Belgio, e sono venuto in Italia nel ’91 e da lì è cominciato un percorso di riscoperta delle mie radici, perché ero in Belgio ma ero considerato un italiano, sono venuto qui in Italia e per anni sono stato considerato straniero, adesso mi sento italiano, ma soprattutto calabrese.

Che siamo un popolo di pagliacci?
Sì, un popolo serio, pieno di gioia e caloroso!


L'autore

Nadia Macrì

Nadia Macrì, è nata nel 1977 a Zurigo, ma ha vissuto anche in altre città italiane, isole comprese.
Non è chiaro se per vocazione o per bisogno, alterna pittura, radio, canto, web e scrittura all'arte della medicina. Segue con particolare interesse gli artisti emergenti e ama tutto ciò che è alternativo.
Ha all'attivo diverse collaborazioni con emittenti radiofoniche, case discografiche e portali musicali. Collabora con diverse associazioni locali e nazionali per la realizzazione di eventi musicali, ma ama soprattutto comunicare con gli artisti attraverso le sue interviste che conclude sempre con la stessa domanda semi-seria: qual è la nota musicale preferita. Quasi a voler costruire una melodia aggiungendo una nota per volta.
Di se stessa dice: "Ci sono quelli che sanno tenere i piedi per terra. E chi ha sempre la testa fra le nuvole. Nadia è a metà. Tra terra e cielo”.
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